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L’Europa politica e la provincia italiana

EP-Building

(di Jacopo Rosatelli, articolo uscito sul Manifesto) da www.italia2013.org

Non è certo una novità, nella sinistra italiana, invocare la nascita di un’Europa davvero politica. Contro il potere irresponsabile (in senso tecnico) della Banca Centrale, contro l’egemonia dell’asse franco-tedesco, contro la tecnocrazia della Commissione, da tempo i progressisti di vario rito insistono sulla necessità di creare un’Europa dei cittadini, nella quale le decisioni emanino da istituzioni che godono di una piena, diretta, legittimità democratica. La fine del ruolo ancillare del Parlamento di Strasburgo è, solitamente, una delle principali rivendicazioni di chi non è disposto ad accettare che tutto proceda come è stato sin qua. A furia di ripetere queste sacrosante cose, però, c’è il rischio che la parola d’ordine dell’Europa politica (e sociale) si converta in un luogo comune, in una sorta di abito linguistico che «fa fine e non impegna»: il momento di passare ad atti concreti, che si pongano l’obiettivo di tradurla in realtà, non arriva mai.

Non mi riferisco alle molteplici esperienze di associazioni, reti, gruppi di attivisti, intellettuali, e anche di amministratori locali che da tempo hanno assunto l’Europa come lo spazio privilegiato del proprio agire e della propria riflessione: il dibattito sviluppatosi sul Manifesto (e visibile qui) e il recente incontro di Firenze promosso tra gli altri da Sbilanciamoci su “L’Europa, l’Italia, la crisi e la democrazia” ne sono preziosa testimonianza. A limitarsi ad un “europeismo verbale” privo di qualsiasi spessore sono molto spesso i partiti, incapaci di prendere sul serio le proprie stesse parole. Come spiegarsi altrimenti il fatto che nessuna forza del centrosinistra e della sinistra italiana, tranne Rifondazione nella Sinistra Europea, abbia ancora trovato una collocazione ragionevolmente definita nel quadro politico continentale?

Il tema è annoso e, a tutta prima, rischia di essere vissuto come un trastullo da commentatori. O un diversivo da politici consumati, come è stato, certamente, nel caso della fugace popolarità del socialismo europeo durante la segreteria D’Alema del Pds-Ds. Ricordiamo tutti l’eliminazione della falce e martello ai piedi della Quercia, a beneficio di una botanicamente più coerente rosa: cos’è rimasto di quella svolta, a suo tempo sbandierata come costituente? Ben poco. Con la nascita del PD, ciò che prima era ritenuto segno d’identità è stato derubricato a dettaglio, per non mettere in imbarazzo i nuovi compagni di strada di ascendenza democristiana, già irritati dal doversi sedere fra i socialisti a Strasburgo. Il risultato è che, oggi, nel Partito socialista europeo (PSE) l’unica formazione italiana membro a tutti gli effetti è l’irrimediabilmente minoritario Psi di Nencini. E se il PD non ha una casa in Europa, amen.

Un discorso analogo vale per SEL e per l’Italia dei Valori. Il partito di Vendola non ha mai affrontato un dibattito che lo conducesse a prendere una decisione: troppe sensibilità diverse che rischierebbero di urtarsi in caso di scelte sgradite. Meglio rimuovere la questione, dunque, invece di confrontare, e poi pesare, le ragioni dei sostenitori dell’adesione al PSE, ai Verdi o alla Sinistra Europea. Il movimento dipietrista, da par suo, è a tutti gli effetti affiliato al Partito Liberaldemocratico, che, come non potrebbe essere altrimenti, difende posizioni liberiste. Nel suo recente congresso, tenutosi proprio in Italia, ha approvato una risoluzione in cui respinge la tassa «socialista» (sic!) sulle transazioni finanziarie, perché renderebbe «meno attrattivo» il Vecchio Continente per le global companies. Come possano conciliarsi tesi simili con la giusta opposizione filo-sindacale, praticata dall’IdV dentro i nostri confini, rimane un mistero.

Ma in fondo perché preoccuparsi di una simile questione? Hanno un qualche peso reale i partiti continentali? Effettivamente non molto: e proprio questo è il problema. Se si vuole, giustamente, un’Europa politica, bisogna avere prima una politica europea. Non si darà l’una senza l’altra. Non si riuscirà ad imporre una democratizzazione del complesso marchingegno istituzionale dell’Unione senza forti attori politici, a tutti gli effetti europei, in libera competizione per determinare l’indirizzo di governo. Insomma: non si può predicare il federalismo e poi agire come se l’Europa non esistesse. Come hanno da ultimo saputo fare, non senza difficoltà e contraddizioni, movimenti come quello degli indignados, i partiti devono assumere davvero l’impegno a praticare una politica ad una nuova dimensione, se non vogliono condannare se stessi, e la politica, all’irrilevanza. Certo, esistono per fortuna anche altre forme dell’agire collettivo: ma ciò non toglie che la democrazia rappresentativa non possa vivere senza partiti. Chi non vuol morire di tecnocrazia deve, insomma, essere conseguente: non sarà certo risolutivo, ma un forte protagonismo di una politica organizzata è uno dei contrappesi fondamentali al disegno post-democratico dell’Europa à la Merkozy.

Per questo una delle tante anomalie italiane non può più durare a lungo. L’auto-emarginazione dalla politica continentale, le scelte di comodo o le collocazioni casuali, dovute a comprensibili ma inaccettabili ragioni tattiche interne, devono cessare il prima possibile. Soprattutto perché cominciano ad esserci segnali incoraggianti, come quello che è emerso dall’ultimo consiglio del PSE del 24-25 novembre, dove i socialisti europei hanno deciso che in occasione delle prossime elezioni presenteranno un candidato (o candidata) comune alla presidenza della Commissione. Pur con tutte le riserve che si possono nutrire verso la personalizzazione della politica (e verso i socialisti europei), è indiscutibile che avrà l’effetto di rendere decisamente “più europee” e più vere le elezioni per la Camera di Strasburgo, che potrebbe così vedere rafforzarsi il proprio peso negli equilibri di potere dell’Unione. Se le altre sinistre seguiranno l’esempio, potrà essere un primo passo per trovare, all’insegna dell’ideale europeo, una via d’uscita alla crisi di questa triste Europa reale.