D’ELIA (PD-IDP). Signor Presidente, colleghe e colleghi, questa discussione si svolge nel 2024, un passaggio fondamentale: l’anno in cui sono chiamati al voto miliardi di persone in tutto il mondo. Qualche volta, purtroppo, la sovranità popolare nel mondo è profondamente messa in discussione e le elezioni sono un vuoto simulacro. La partecipazione è importante, come hanno ricordato il presidente Mattarella, il collega tedesco e quello austriaco. Sono in gioco valori fondamentali come il pluralismo, i diritti umani e lo Stato di diritto. Siamo consapevoli di vivere però in un momento di crisi delle democrazie, e non è solo crisi di stabilità, ma è anche crisi di rappresentanza. La stanchezza nella partecipazione si esprime nell’aumento dell’astensionismo anche nel nostro Paese che aveva una storia di alta partecipazione.
È una crisi, dunque, che riguarda soprattutto noi, colleghe e colleghi, il nostro ruolo, la credibilità della rappresentanza e del nostro lavoro. Siamo qui senza vincolo di mandato, come hanno voluto i Costituenti, perché ciascuno e ciascuna di noi rappresenta la Nazione e l’interesse generale del Paese. Non possiamo dipendere dunque dal partito che ci ha eletto; ciascuno di noi, non il capo o la capa, è un’unità fatta di pluralità e siamo eletti appartenenti a gruppi politici che esprimono progetti, visioni e politiche; una pluralità di persone quindi, di interessi sociali e di opzioni politiche diverse che rappresentiamo.
Come recita l’articolo 49, i cittadini concorrono alla determinazione della politica nazionale associandosi in partiti con metodo democratico.
Tale opzione, nel quadro di una forma di Governo parlamentare, ha un valore ben preciso. La democrazia si realizza attraverso la partecipazione, la discussione, il confronto nelle sedi rappresentative, non attraverso la semplice legittimazione popolare di un vertice lasciato poi libero di determinare l’indirizzo politico del Paese in assenza di contrappesi. Qui, altro che in punta di piedi: il progetto che voi mettete in campo mette in discussione, a nostro parere, proprio questa fondamentale scelta della nostra Costituzione.
Sappiamo, però, che veniamo da una crisi, da un indebolimento della rappresentanza che inizia già negli anni ’80. La politica è stata mediata, organizzata e garantita dal radicamento sociale dei partiti prima. Ma, appunto, il primo fattore sono state la verticalizzazione e la personalizzazione della rappresentanza politica, la sua identificazione con i leader, la trasformazione del nostro sistema politico in quella che è stata chiamata la democrazia del leader, formata da partiti personali; processo che, non a caso, si accompagna anche alla subalternità ai poteri economici.
Con questa riforma siamo all’esito estremo dei due processi: l’autocrazia elettiva, per usare un’espressione usata dal giurista Luigi Ferrajoli, a cui mi rifarò molto. Questo indica la vostra riforma: un ossimoro. Non si può non pensare al principio di supremazia di schmittiana memoria, una concezione organicistica e populista della rappresentanza: il capo è, in breve, l’espressione diretta della volontà della maggioranza quale volontà del popolo intero, cioè in quanto volontà unitaria che può essere espressa solo dal capo, che ha bisogno del rapporto di fiducia, che però viene irrigidito e ridotto sostanzialmente a un simulacro.
Come ha scritto ancora Ferrajoli, è chiaro che questa concezione della rappresentanza politica ha un’inevitabile valenza totalitaria. Il suo presupposto è l’idea, autoritaria e illiberale, del demos come entità omogenea, in rapporto di opposizione e di esclusione con gli altri popoli, ma anche con quanti, rispetto a questa supposta omogeneità, sono differenti o dissenzienti, e perciò virtualmente nemici. Me the people, recita il titolo di un volume di Nadia Urbinati sulle leadership populiste.
Ancor più ideologica e mistificante è la raffigurazione del Presidente eletto dal popolo come espressione della Nazione. L’elezione del Premier come forma più diretta della democrazia è il frutto della doppia confusione tra il capo della maggioranza e la maggioranza medesima che si fa popolo intero. Alla base ci sono il rifiuto delle mediazioni e quindi la raffigurazione del Presidente e del Premier come espressione diretta e organica della volontà popolare, garante dell’unità nazionale anche di fronte all’autonomia differenziata, in grado addirittura di bilanciare le tendenze centrifughe.
Allora io non tornerò sullo scellerato patto che vi tiene insieme – lo hanno fatto bene altri colleghi che sono intervenuti prima di me – tra premierato e autonomia differenziata. Voglio solo sottolineare come entrambe queste riforme esprimono una concezione basata sul predominio dei forti (chi vince prende tutto, perché rappresenta tutto) e anche l’illusione che chi è più forte corre meglio da solo e ce la può fare. Ma è illusoria la capacità di tenere insieme. È invece evidente che un organo monocratico non può per sua natura rappresentare – come invece avviene nel Parlamento – la pluralità delle forze e degli interessi in conflitto nella società, ma al massimo, appunto, la parte vincente nelle elezioni. Significa scambiare l’ideologia con la realtà, come diceva a suo tempo Kelsen a Schmitt.
Qui appunto alteriamo la realtà, l’equilibrio dei poteri tra Parlamento e Premier, che schiaccia la complessità dell’esercizio della rappresentanza all’elezione di un capo che si porta dietro la pattuglia degli eletti. Il Parlamento vive e muore insieme al Premier, senza alcuna autonomia e possibilità di superare i momenti di crisi dando autonomamente vita a Governi diversi.
Insisto, colleghe e colleghi: questo riguarda noi, in particolare noi, cosa vogliamo essere noi, il Parlamento, del quale peraltro non ci viene detto come sarà eletto.
Costituzionalizziamo il premio di maggioranza senza sapere quale sarà la legge elettorale. In questa riforma, la volontà collettiva non è creata dal Parlamento, il quale è quasi un fastidio, scenario probabilmente dei contrasti di interessi, dello smembramento partitico. Non c’è la fatica della sintesi, ma, del resto, questo è già pratica. Lo abbiamo detto per il modo in cui abbiamo discusso anche di questa riforma.
È la negazione del paradigma della democrazia costituzionale: in primo luogo, per la tendenziale negazione o comunque l’indebolimento del pluralismo politico e la sostanziale svalutazione delle minoranze in favore della centralità del capo; in secondo luogo, per la tendenziale insofferenza per il pluralismo istituzionale, e cioè per la separazione dei poteri e per i limiti e i vincoli imposti dalla Costituzione ai poteri del Governo. Anche questo, infatti, la riforma porta con sé.
La riforma costituzionale in discussione è la versione odierna – come suggerisce sempre Ferrajoli – in termini pseudo democratici di un’idea vecchissima nella storia del pensiero politico: l’idea del Governo degli uomini migliori contrapposta al Governo delle leggi e criticata già da Platone e Aristotele.
C’è un passo di Kelsen contro questa tentazione del Governo degli uomini: «L’idea di democrazia implica assenza di capi. Interamente nel suo spirito sono le parole che Platone, nella sua Repubblica fa dire a Socrate – in risposta alla questione sul come dovrebbe essere trattato, nello Stato ideale, un uomo dotato di qualità superiori, un genio, insomma – Noi l’onoreremmo come un essere degno d’adorazione, meraviglioso ed amabile; ma dopo avergli fatto notare che non c’è uomo di tal genere nel nostro Stato, e che non deve esserci, untogli il capo ed incoronatolo, lo scorteremmo fino alla frontiera».
Ma possiamo tornare ai nostri tempi, a quelli che oggi potrebbero apparire i migliori. Penso all’esempio portato dalla costituzionalista Roberta Calvano nelle audizioni. Non paia eccessiva questa segnalazione che vorrei sottolineare. Immagino un campione di calcio che si candidi come Presidente del Consiglio, venendo a collegare la sua candidatura non con le forze politiche oggi conosciute e rappresentative, ma con una lista di familiari ed amici e magari qualche compagno di squadra, in grado di superare la soglia di sbarramento, ma non certo di raccogliere un ampio consenso popolare.
In forza della popolarità personale del candidato, questa ipotetica lista minoritaria, pescando dall’astensionismo e in forza dell’ottimo successo elettorale personale del calciatore candidato, si vedrebbe attribuire la maggioranza dei seggi in entrambe le Camere a fronte di risultati elettorali pari a quelli che le forze politiche hanno ottenuto nel 2022.
L’attuale indeterminatezza dei princìpi su cui sarà ispirata la legge elettorale ci fa pensare a qualunque ipotesi e non ci aiuta a escludere ipotesi simili. Non a caso anche la professoressa Calvano ha parlato di Napoleone che si auto incorona. Sono questi la rigidità e l’effetto di trascinamento che mettete in capo. Altro che poche norme semplici che toccano leggermente la Costituzione. Il combinato disposto tra tutte le riforme, compresa quella della giustizia, davvero muta totalmente l’architettura costituzionale del nostro Paese.
Noi parliamo di questo in un contesto che vede la guerra nel cuore dell’Europa, la crescita delle diseguaglianze tra cittadini, l’emergenza delle morti sul lavoro. Voi ci proponete un’agenda fatta di queste riforme, lontanissime dal cuore dei problemi dei cittadini e che non affrontano il cuore del problema della democrazia, che appunto è la rappresentanza.
È un’altra la strada: rifondare i partiti, restituire centralità al Parlamento. Una democrazia fondata sul suffragio universale non può funzionare senza le forze politiche. Ritornare ai princìpi costituzionali, alla Costituzione, che è un patto di convivenza pacifica, di rispetto tra differenti e di solidarietà tra disuguali; un patto tanto più legittimo, necessario e urgente quanto maggiori sono le differenze di identità personali, che ha il compito di tutelare le diseguaglianze materiali e che è chiamato a rimuovere e a ridurle.
Questo è il nostro compito, il nostro lavoro. Invece di stravolgere la Costituzione, ancora una volta dobbiamo attuarla. Per questo, nel Paese, fino in fondo saremo contro le vostre riforme