di Cecilia D’Elia e Maddalena Vianello
Pubblicato sul manifesto
Viviamo chiuse a casa dalla pandemia, per tutela di noi stesse e degli altri. Mai distanziamento fu più sociale di questo. La compressione nello spazio delle nostre attività ha reso più acuta la consapevolezza della cura necessaria a mandare avanti la vita. Sperimentiamo ancor più oggi, una alle prese con un figlio nato da pochi mesi, l’altra con due più che adolescenti e con i rispettivi padri, quanto possa essere grande anche per noi l’affaticamento da lavoro domestico e di cura. Noi che ci siamo sottratte a una divisione dei compiti tra i generi.
Visto dalle nostre confortevoli abitazioni e dai nostri nuclei familiari «paritari», in cui ogni giorno sperimentiamo e contrattiamo condivisione e equa distribuzione dei compiti, mentre siamo ancora immerse nella preoccupazione e nella fatica dell’emergenza, l’avvicinarsi della cosiddetta fase due è davvero pieno di incognite. Esercitarsi nell’immaginare il prossimo futuro non è facile, un rovello continuo nel costruire e disfare ipotesi di fronte all’incertezza.
Alcuni punti fermi, però, ci sono e fra questi il fatto che il nuovo scenario che ci si porrà di fronte imporrà di ripensare al lavoro, alla cura e alla loro complessa intersezione. E, invece, se in questi giorni nomini bambine e bambini, o anziane e anziani ti viene risposto che per il momento riprende la produzione, non la socialità. E quindi? La produzione significa organizzazione sociale, tempi di vita e di lavoro delle persone, rapporto tra lavoro produttivo e riproduttivo. Come si ridisegna tutto questo se molti di noi saranno chiamati a tornare al lavoro senza scuole, welfare pubblico o privato, e sostegno familiare?
Tutto questo e molto altro avrà un impatto profondo sui tempi e le necessità del lavoro di cura.
Questo fino a oggi si è retto su alcuni pilastri: lavoro gratuito, soprattutto delle donne, madri di figli piccoli o figlie di genitori anziani, il sistema di welfare e il lavoro retribuito. Protagonisti del primo sono anche i nonni e le nonne, grandi interpreti del lavoro di cura familiare, oggi fra i soggetti particolarmente a rischio e quindi isolati con maggior rigore. Il lavoro di cura retribuito è invece affidato a una schiera di colf, badanti e babysitter spesso straniere e ancor più spesso in nero, o senza contratti pienamente regolari e quasi del tutto dimenticate dal Decreto Cura Italia, svista alla quale il governo ha annunciato che rimedierà.
L’ultima fotografia che ci ha restituito l’Istat ci raccontava, ben prima del Corona virus, come una reale condivisione del lavoro di cura in questo Paese sia lontana dal realizzarsi. Questa organizzazione sociale, profondamente segnata da diseguaglianze di genere nell’uso del tempo e nella relazione tra ore di lavoro retribuito e ore di lavoro gratuito, in queste settimane sta subendo dei colpi molto duri. Improvvisamente, chiusi a casa, molti hanno dovuto fare a meno di collaboratrici domestiche, badanti, assistenti domiciliari. Il lavoro domestico e di cura è pienamente ricaduto sulle spalle delle famiglie. Qualcuna si è augurata che questa esperienza, avendo illuminato l’essenzialità di queste funzioni, potesse aiutare a mettere in discussione equilibri consolidati. Chissà se in questa fase che ha imposto di rivedere tempi e organizzazione della vita quotidiana, non ci siano alcune famiglie in cui a fronte dell’impegno professionale delle donne – dagli ospedali alla grande distribuzione – alcuni uomini non siano stati obbligati a ripensare il loro ruolo fra le mura domestiche dove sono anche loro rinchiusi.
Non sappiamo cosa sia cambiato nelle famiglie in queste settimane, pensiamo però che se i mutamenti privati non sono sostenuti da politiche pubbliche, la ripartenza rischia di aggravare un’ingiustizia più che risolverla. Si tratta di un cambiamento culturale complesso. E questo Paese ancor prima della pandemia faticava ad allungare il congedo di paternità obbligatorio ed era alle prese con la proposta dell’Assegno unico – che punta ad assorbire in un solo strumento semplificato gli aiuti previsti per i nuclei familiari con figli a carico. Tutte riforme ancora da fare.
È necessario riconoscere il valore del lavoro di cura. Un impegno faticoso, essenziale per le nostre vite e per le nostre relazioni, che occupa tanto tempo prezioso. Non deve diventare la scusa per far restare a casa le donne. Tutt’altro. Deve essere pensato in termini di piena condivisione fra uomini e donne, e di welfare di comunità.
Come racconta l’Appello per una democrazia della cura la situazione lavorativa delle professioniste della cura è molto fragile e va urgentemente ripensata con interventi mirati. Emerge, però, anche il fatto che alcune famiglie hanno provveduto a regolarizzare colf, badanti e babysitter proprio a fronte della necessità di giustificare gli spostamenti. Questo fenomeno rappresenta una grande occasione per far emergere il lavoro nero (e grigio) e regolarizzare la posizione delle lavoratrici del settore. Come ci viene ricordato nell’Appello, le professioniste straniere rischiano di andare a ingrossare le fila delle irregolari. Il lavoro di cura è da sempre in questo Paese una delle sacche del lavoro nero. E proprio in questo momento si potrebbe cogliere l’opportunità per disegnare incentivi e detassazione per l’emersione, così come si sta ipotizzando per il lavoro agricolo.
La ripartenza ci impone di essere vigili sul processo di costruzione di una democrazia paritaria di fatto e non solo nominalmente, che non può prescindere da una maggiore condivisone del lavoro di cura fra uomini e donne. Non è tema che può rimandarsi ad un “dopo” meno emergenziale, il primo passo della ripresa ne determinerà la direzione. Non possiamo permetterci che in generale le donne escano dal mondo del lavoro. La situazione attualmente non è rosea, lo sappiamo. Le donne sono le più qualificate, le meno pagate (in Italia il gender pay gap è pari al 17,8%) e le più soggette al part time involontario. E troppe escono dal mondo del lavoro una volta avuto il secondo figlio, in un’economia di costi-benefici «conviene» che restino a casa, a fronte del fatto che statisticamente il loro compagno guadagna di più e che gli aiuti extra familiari costano troppo.
Alcuni di noi hanno imparato in queste settimane che le donne sono in prima linea grazie ai ruoli professionali che ricoprono. Sono donne le ricercatrici che all’ospedale Spallanzani di Roma per prime hanno isolato il virus. Sono donne le tantissime dottoresse e infermiere che in questi giorni stanno mettendo a disposizione di tutta la comunità energie e competenze oltremisura – sono 420mila e rappresentano i due terzi del personale del Servizio Sanitario Nazionale. Sono donne le tantissime addette dei supermercati che sono scese a patti con la paura per sé e per i loro cari e che hanno consentito a tutti e tutte di poter regolarmente fare la spesa. Sono donne le moltissime addette alle pulizie che continuano a sanificare i luoghi di lavoro.
Essenziali, anche se in Italia ancora troppo poche. Non possiamo permetterci che le donne escano ulteriormente dal mondo del lavoro a causa della recessione che si prospetta. Particolare preoccupazione sorge nel constatare che alcuni settori particolarmente a rischio, come per esempio il turismo, hanno una altissima percentuale di occupazione femminile. Nessuna deve perdere il lavoro. Ma perché ciò sia possibile dobbiamo essere consapevoli del fatto che la produzione è essa stessa luogo di socialità, e infatti si discute di come rendere sicuri i luoghi di lavoro, così come anche la socialità è produzione. Ma anche se volessimo limitarci a quella industriale la produzione è comunque interconnessa. Le persone che vi lavorano hanno una vita da programmare e organizzare, che garantisce la riproduzione delle condizioni di vita loro e, se ci sono, dei figli o dei genitori anziani fragili. Un piano per le bambine e i bambini, ad esempio, sarebbe innanzitutto il riconoscimento del loro diritto alla socialità e alla conoscenza, ma anche un pezzo essenziale dell’organizzazione sociale che consente di rimettere in moto il Paese.
Il nostro interrogarci su possibili nuove formule da sperimentare non è solo un personale esercizio d’immaginazione. In tante e tanti, cittadine e cittadini, amministratori, terzo settore, educatrici e educatori, si stanno interrogando su come ripensare servizi e luoghi essenziali del nostro welfare. Sono passi che vanno fatti insieme, sono le condizioni che rendono possibile la produzione, non un lusso che viene dopo. Specie se non si vuole rischiare che di mezzo ci vadano le donne e che si torni a ignorare la centralità della cura della vita.