Pubblicato su femministerie. Grande è la confusione sotto il cielo quando si parla di procreazione medicalmente assistita, ma la situazione non è eccellente. Più piani del discorso si intrecciano e si confondono e troppi fantasmi si agitano. Lo spettro della maternità surrogata, vietata in Italia, viene evocato appena si discute di matrimoni gay e di genitorialità delle coppie omosessuali, finendo per fare di ogni erba un fascio, per suggerire opache sovrapposizioni tra l’eterno conflitto attorno al controllo del corpo femminile, le nuove forme di mercificazione del corpo, la maternità surrogata, il desiderio di paternità degli uomini gay.
E invece bisogna distinguere, e discernere. Proprio per evitare abusi e mercificazione e per non consentire alle tecnologie di essere la nuova e potente forma di oggettivazione del corpo femminile, di medicalizzazione del venire al mondo, di riduzione del grembo materno a mero “ambiente di vita” del nascituro. Abbiamo bisogno di un discorso pubblico meno urlato, capace di riconoscere l’opera della madre, ma anche di ragionare e di interrogare le esperienze nuove. Servirebbe meno ansia di vietare, di affidarsi alla norma, e più capacità di valorizzare nelle nuove modalità di venire al mondo la mediazione vivente del corpo femminile.
Non siamo all’anno zero. Più di trent’anni sono passati dalle prime nascite frutto di concepimenti ottenuti grazie alla fecondazione in vitro. La terribile legge italiana ha ormai 11 anni, è passata indenne attraverso un referendum fallito nel numero di partecipanti, ma è stata per fortuna di fatto stravolta dalle diverse sentenze della corte costituzionale che sono intervenute a smussarne i divieti più feroci e ingiusti. La più recente (9 aprile 2014, n. 162) ha aperto le porte alla fecondazione eterologa, e ha visto un contenzioso tra governo nazionale e regioni sulle modalità di immediata ricezione (su questo si veda la ricostruzione dell’Osservatorio Costituzionale, in particolare il documento della Conferenza delle regioni del 4 settembre 2014).
Dal punto di vista del diritto alla salute di chi accede alle tecniche la vera emergenza italiana è l’aggiornamento delle linee guida ministeriali, ferme al 2008, e l’inserimento della procreazione medicalmente assistita nei Livelli essenziali di assistenza (LEA), cosa decisa dalle singole regioni, ma che necessita di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.
L’Italia è il paese che su questo tema aveva legiferato in modo invasivo e autoritario, fin troppo palesemente alcuni cercavano di usare le pma come un grimaldello per scardinare la legge 194 e affermare la parità dei soggetti coinvolti nella nascita, facendo del concepito un soggetto di diritti e negando qualsiasi primato femminile nella procreazione. Si è cercato di ristabilire attraverso la legislazione sulle pma una presunta “naturalità” del modello di famiglia autorizzato a riprodursi. Lo Stato ha preteso anche di determinare, sostituendosi ai medici e alla donna che si sottopone alle tecniche, quanti embrioni produrre (3) e come impiantarli, tutte cose venute a cadere grazie alla consulta. Lo stato aveva di fatto sancito, vietando l’eterologa, che la generazione è prima di tutto discendenza biologica. Qualcuno era arrivato a paragonare l’eterologa all’adulterio, facendo un evidente corto circuito tra donazione di gameti e relazione sessuale.
L’Italia è il paese in cui da anni non si riesce a legiferare su unioni civili e matrimoni omosessuali, il paese in cui non è consentita l’adozione ai single e si vieta il divorzio immediato a due adulti consenzienti.
In Italia rigurgiti patriarcali e assenza di laicità si rafforzano vicendevolmente, troppi conflitti mai sopiti precipitano quando in gioco sono le scelte procreative, le relazioni di amore tra le persone, l’idea di famiglia e di genitorialità, la salute riproduttiva.
In realtà prevale una visione materialista, del resto siamo il paese dello ius sanguinis. Questo riduce i corpi a pura biologia, li separa dalla soggettività esattamente come prima delle tecniche il patriarcato riduceva la madre a mero contenitore del seme paterno, e la famiglia alla possibilità di procreare sangue del proprio sangue.
Forse proprio da qui conviene ripartire. Siamo soggettività incarnate, non possiamo ridurre la vita a continuum biologico, totalmente manipolabile, senza coscienza del limite. Aver separato la procreazione dalla sessualità e aver separato i diversi momenti di cui si compone la formazione di una nuova vita, rendendo possibile la partecipazione a questo processo di più soggetti, non toglie centralità al corpo femminile che media, che opera nella gestazione e nel parto, e non cancella le altre soggettività coinvolte. Ma proprio per questo, perché siamo anche desideri, affetti coinvolgimento emotivo, la famiglia non è solo geneticamente determinata, ma è un’istituzione sociale e tale è anche la genitorialità.
Se si assume questo punto di vista, quello delle soggettività all’opera, e non le si riduce a soggetti che rivendicano il loro diritto individuale, ma si colgono le loro relazioni, forse si può si mettere ordine in molte questioni. Per questo è necessario che in questi ambiti il diritto sia mite, tuteli la salute dei soggetti coinvolti e riconosca il primato femminile nella procreazione, vieti la mercificazione, ma lasci aperto il campo alle relazioni solidali.