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Il carcere della differenza

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Pubblicato su Femministerie

Lo sguardo della differenza femminile sul carcere, il sottotitolo che campeggia sulla copertina di Recluse (Ediesse, 2014, pp315, 16 euro), dice tutto della mossa politica che ispira il lavoro di Susanna Ronconi e Grazia Zuffa. In questo libro protagonista è la differenza femminile, quella delle detenute, quella delle agenti e delle educatrici, quella delle due autrici. Lo sguardo cerca la soggettività femminile all’interno delle mura carcerarie e alla fine del viaggio riflette sul percorso fatto conversandone con Maria Luisa Boccia, femminista e teorica della differenza.

Questo testo dunque è molte cose insieme. Nasce da una ricerca finanziata dalla Regione Toscana sull’autolesionismo e il suicidio, che ha coinvolto il carcere di Sollicciano, quello di Empoli e quello di Pisa. E’ l’occasione per illuminare la scena del carcere femminile, realtà poco studiata anche per via dell’esiguità dei numeri e per restituire un pezzo di storia carceraria poco conosciuto. Nonostante il modello rieducativo, di cui tanto si discute, abbia un’origine femminile e ambigua, legata all’idea della minorità delle donne, non adatte alla punizione, ma necessarie di correzione. Il libro è anche un lavoro sulla differenza femminile che rimanda a tutte noi alcune questioni essenziali e ancora aperte: il rapporto con la maternità e il materno, l’attitudine alla cura, l’importanza delle relazioni tra donne.
Le interviste sono un vero racconto. Narrano di individue che entrano in carcere consapevoli delle scelte fatte, rivendicate e non subite, ma molto critiche sulla modalità della pena ricevuta, sulla sua efferatezza. Individue alle prese con un luogo che punta a spersonalizzare e a infantilizzare. Un luogo di cui codici e regole sono sconosciuti. “Detenute si diventa” dirà una di loro, a sottolineare l’apprendimento necessario per non essere in balia di un’istituzione che così ti vorrebbe.

La prima resilienza è rimanere se stesse, mentre tutto rema contro, e ricordarsi di non essere solo il proprio reato, di non far entrare “il blindo nel cervello”. Il richiamo al ruolo di madre o di figlia diventa risorsa potente, con tutta l’ambiguità che questo comporta. Da un lato il carcere sembra rieducare a un ruolo, dall’altro per tante donne disancorare il reato dalla capacità genitoriale o dall’affetto di figlia è una risorsa strategica per continuare ad esistere oltre la pena.

Anche in questo caso il carcere lavora contro, i rapporti con l’esterno sono centellinati, qualche volta l’ottusità burocratica diventa feroce, come nel caso della madre che non può chiamare il figlio al cellulare perché il telefonino non è intestato a lui, che è un minore.

Le relazioni con le altre, spesso subite per via degli spazi coattivamente condivisi, quando scelte sono invece un reale investimento. Smentiscono l’immagine stereotipata, diffusamente presente nei racconti delle agenti, della difficoltà dei rapporti tra donne a diventare relazioni importanti, che non finiscano in litigiosi capricci, a cui mai si riconosce la dignità di reali conflitti.

Dalle interviste emergono diverse strategie di empowerment messe in campo dalle detenute non grazie, ma nonostante il carcere. E a questo sapere femminile sul carcere si spirano Ronconi e Zuffa per proporre alcuni interventi di riduzione del danno carcerario sulle persone e di riconoscimento dei diritti che non si limitino all’astratta costruzione di una carta da rivendicare, ma prendano corpo nella concretezza delle relazioni vissute nello spazio del penitenziario. Per il carcere significa, come indica Tamar Pitch che ha collaborato ai paragrafi iniziali sulla questione criminale femminile, superare la contrapposizione tra giustizia dei diritti e giustizia dei bisogni. Ancora una volta la differenza sessuale mette in campo le relazioni di cura, chiede di riconoscere la dipendenza che spesso segna i rapporti tra le persone; non per opporre astrattezza dei diritti a concretezza della relazioni, ma per attivare le soggettività, per liberare la dipendenza dalla minorità, per riconoscere il legame tra le persone senza farne un laccio che imprigiona, ma tramutandolo in risorsa per l’autonomia.

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