Pubblicato su Ingenere.it
Chiara Lalli con La verità, vi prego, sull’aborto (Fandango libri, 2013) indaga la scelta femminile di interrompere una gravidanza, denunciando il silenzio e il senso di colpa che la circondano. Parlano le donne, raccontano di sé, del perchè lo hanno fatto, di come lo hanno vissuto. Un libro vero, che – proprio per questo – smonta pregiudizi. A cominciare dalla letteratura scientifica, che vede l’aborto solo come trauma, fino alla determinazione di una vera e propria sindrome postabortiva. Argomenti usati dagli avversari alla legalizzazione dell’aborto che, secondo l’autrice, non puntano più sulla fallimentare strategia dei “diritti dell’embrione”, ma su quella nuova dei “rischi per la salute psichica della donna” che sceglie l’interruzione di gravidanza (già facilmente smentita dalle ricerche empiriche come quella dell’American public Health Association Meeting, secondo cui “una settimana dopo aver chiesto l’aborto il 97% delle donne che lo hanno ottenuto sentono che sia stata la scelta giusta, il 65% delle turnaways avrebbero ancora voluto ottenerlo”).
Quello che il libro si domanda è se per una donna sia davvero possibile scegliere o non siamo invece in presenza di una rimozione e colpevolizzazione tali da rendere difficile e solitaria la scelta abortiva, nonostante la sua legalizzazione. Fino al paradosso di donne convinte e serene che sentono di dover mostrare, prima di tutto a se stesse, dolore e rimpianto per la maternità negata, perchè comunque quello che si chiede ad una donna è di desiderare di essere madre.
Quello che manca è una narrazione dell’aborto volontario, indicibile a dirsi se non come dramma. Così del resto è nominato anche da tanti difensori della legge che ha introdotto la possibilità di ricorrere all’interruzione di gravidanza nelle strutture sanitarie pubbliche. Ma è proprio così? Un aborto sereno e scelto, senza rimpianti, è impossibile? O forse ciò che lo rende tale è lo stigma sociale?
Questo è il crinale difficile e scomodo su cui si muove Chiara Lalli, senza per questo banalizzare una delle scelte rilevanti che ci può capitare di dover affrontare nel corso della vita.
Modalità, luoghi, burocrazie, pregiudizi e aspettative della società possono concorrere a fare dell’aborto un’esperienza violenta. Chiara Lalli fa parlare donne che lo hanno scelto, passa una giornata in un grande ospedale travestita da medico, al fianco della sua amica ginecologa impegnata in alcune interruzioni di gravidanza, analizza come televisione e cinema raccontano l’aborto. Ci consegna esperienze soggettive e narrazione dei media, intreccia vissuto e discorso dominante. Guardando con rispetto alle donne che vivono tragicamente l’interruzione involontaria di una gravidanza, fino al desiderio del seppellimento del feto, il testo si concentra volutamente sul vissuto di chi sceglie di abortire.
Colpevolizzazione e difficoltà alla narrazione emergono nell’aborto in tv e nei media. Eppure ci sono anche rari e preziosi racconti che mettono in scena un non desiderio di maternità, come per Cristina Yang di Grey’s Anatomy, oppure un aborto voluto che non ha condannato la protagonista all’infelicità eterna, come nel caso di Laura in Alta fedeltà.
La difficoltà non è solo dei media. “Se il 25% della donne ha abortito, ognuno di noi avrà un’amica, una sorella, o una parente che ha abortito. Perchè nessuno ne parla?”
Non che non ci siano prese di posizioni politiche, ogni volta costrette a difendere la legge 194 dai continui attacchi degli antiabortisti (e il libro racconta anche di loro e della marcia per la Vita), oppure a rivendicare al corretta applicazione e a denunciare come il ricorso all’obiezione di coscienza renda difficile abortire in molti luoghi del paese.
La legge 194 nel 1978 fu il frutto di una mediazione parlamentare, possibile grazie alla presenza di grandi movimenti nella società. La strada fu aperta da una sentenza della Corte costituzionale del 1975 che riconosceva un principio di non equivalenza tra il diritto alla vita e alla salute di chi è già persona e quello di chi persona deve ancora diventare. L’impianto della legge si ispira all’equilibrio tra i due diritti. La legge, come rivela anche Chiara Lalli, non prevede “il desiderio di non avere un (altro) figlio”.Quello che è in gioco è la salute psicofisica della donna, con tutta l’ambiguità di tale richiamo. Fu un grande passo in avanti, e tuttora finisce per essere l’argine ai continui tentativi di rimettere in discussione le scelte procreative femminili. Il punto è che si è costrette a difendere la legge e non si parla più dell’esperienza a partire da sé, come si sarebbe detto una volta. Eppure il movimento delle donne ha fatto emergere l’aborto dal bando nel discorso pubblico e dalla criminalizzazione proprio partendo da sé; ha nominato un’esperienza che era indicibile, ne ha fatto materia viva. Il centro dell’interesse all’epoca era la sessualità e l’autonomia femminile. L’alternativa madre/non madre rappresentava la messa in discussione di un destino imposto, e dunque era tema centrale dell’autonomia e della sessualità femminile.
Ma questo avveniva agli albori della legalizzazione della contraccezione e della separazione tra sessualità e riproduzione. Il discorso sulla soggettività e sul desiderio femminile, quindi sulla scelta, esordiva in un mondo in cui le gravidanze indesiderate erano tante e la realtà della clandestinità, con il suo carico di violenza e di morte, alimentava la rappresentazione dell’aborto come una non-scelta, causata dall’arretratezza della condizione sociale. Questa ambiguità è stata anche la forza della 194, confermata dall’esito dei referendum del 1981, vera e propria occasione di elaborazione collettiva degli italiani e della italiane sulla questione. L’aborto come priorità data alla salute della donna, come difesa della vita concreta è diventata la narrazione popolare e della sinistra. Sullo sfondo è rimasta la riflessione sulla scelta di non essere madre. Non che non ci sia stata parola femminile e ricerche femministe, alcune citate anche nel libro, ma non si può dire che abbiano segnato la cultura politica e il senso comune. La verità, vi prego, sull’aborto è un invito ad andare oltre questo senso comune: ci interroga sul significato di questa esperienza umana femminile per liberarla dal dominio della colpa e restituirle la dimensione della scelta. Farà sicuramente discutere, ma è questa la discussione che serve.
Cecilia D’Elia
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