da Italia2013. Si corona così, con la rielezione di Giorgio Napolitano a Presidente della Repubblica, il capolavoro politico di Silvio Berlusconi. Interprete onomatopeico del trentennio neo-liberista italiano, Berlusconi stava per essere travolto dalla fine di un lungo ciclo politico e culturale, economico e sociale, inaugurato dalla non compianta signora Thatcher e finito negli scogli della Lehman Brothers. Non dai fantomatici mercati, ma da una poderosa crisi di consenso, Berlusconi è stato costretto a lasciare Palazzo Chigi neanche due anni fa. Una sinistra moderatamente riformista, in sintonia con gli Usa di Barack Obama e con rinnovate forze della sinistra europea avrebbe potuto chiudere politicamente quel lungo ciclo e contribuire a una riqualificazione e a un riposizionamento dell’Europa sulla scena globale.
Sembrava averlo capito Pierluigi Bersani, quando per il rotto della cuffia salì a bordo della scialuppa referendaria che – in nome dell’acqua bene primario – stava sdoganando dal novero delle parole impronunciabili ciò che è pubblico, ciò che è comune, ciò che è tutti. Una contro-rivoluzione ideologica. Poi però una cultura politica minoritaria, e per ciò subalterna, radicata profondamente a sinistra ci ha riportato tra le secche del pensiero unico dell’austerità e del rigore: il governo Monti non era il pur necessario passaggio per un cambio di regime, come qui si pensava, ma diventava rapidamente l’archetipo di una nuova politica senza più né destra né sinistra, senza più alternative alla sapienza dei tecnici. Ne è seguito un governicchio senza idee e senza visione che dopo qualche mese di sfracelli ha vivacchiato senza più dare cenni di esistenza in vita. Fino a quando Silvio Berlusconi, l’unico politico di razza tra i sedicenti leaders italiani, ha rovesciato il tavolo, prendendo le distanze da quella morta gora, attribuendole tutte le responsabilità della crisi italiana e liberandosene come per miracolo.
Ancora una volta, Pierluigi Bersani sembrava aver capito qualcosa, in modo particolare quando ha scelto – per la prima volta dal 1994 nella storia dei democratici italiani – di allearsi a sinistra, con Sinistra Ecologia Libertà, invece che al centro, con Monti, Casini e la loro Scelta civica. Sembrava, ma le bandiere della nuova alleanza furono rapidamente riposte nei cassetti, all’indomani delle primarie per la leadership: qualche stratega del fallimento avrà ritenuto che il Pd avrebbe vinto meglio senza schierarsi, anzi, coltivando l’ambiguità tra un’alleanza elettorale a sinistra e una promessa di governo al centro. Il risultato s’è visto il 25 febbraio, quando Berlusconi s’è ripreso il suo voto più becero e ideologico e Grillo ha mietuto consensi nella sofferenza sociale e generazionale del Paese: l’uno e l’altro scagliandosi contro il pensiero unico dell’austerità e del rigore rappresentato da Monti, dal suo governo e da chi gli prometteva un altro giro di giostra con quella curiosa teoria del 49 e del 51%, per cui è meglio non vincere che far valere le proprie opinioni.
Quando il giochino s’è rotto, e Monti si è rivelato ininfluente a fare il governo desiderato dal Pd (centro, centro-sinistra, sinistra), è sembrato di nuovo che Bersani avesse capito: le larghe intese erano e sono una trappola per una sinistra moderatamente riformista che, nell’attuale congiuntura nazionale e internazionale, voglia cambiare qualcosa del vecchio quadro liberista con i privati (e i ricchi) e rigorista con il pubblico (e i poveri). Seppur tardivamente, ci ha provato a fare un “governo di cambiamento”, ma senza la forza parlamentare necessaria e con mille resistenze.
Inevitabilmente la partita si è spostata sul Quirinale, e non poteva che essere una partita politica, tra chi voleva il cambiamento e chi si teneva stretto il pensiero unico. Improvvisamente, dopo mille stupidi nyet, Grillo – forse logorato dalla testarda pervicacia con cui Bersani aveva inseguito il governo del cambiamento – cambia gioco e apre una speranza, sfogliando la margherita delle quirinarie fino a un petalo credibile e condivisibile, quello di Stefano Rodotà. E Bersani che fa? Mette la testa sotto la sabbia e propone un candidato per la continuità, le larghe intese, il pensiero unico. Metà dei grandi elettori del Pd, comprensibilmente, rifiuta un simile cambio di rotta e, con franchezza, scommette ancora sul cambiamento. Preso lo schiaffo, Bersani torna sui suoi passi: il candidato è Prodi, nemico giurato delle larghe intese e, a modo suo, del pensiero unico. Ma il partito è ormai balcanizzato, diviso sulle scelte politiche fondamentali e dalle ambizioni personali. Cade anche Prodi. Si conclude la parabola politica di Bersani.
Ed ecco il capolavoro di Berlusconi: il Pd si salva solo se in nome dell’unità nazionale si appella al vecchio Presidente; il Pd si salva solo se dà il via alle larghe intese. Non è un mistero per nessuno che questo è quanto voleva l’inquilino del Quirinale, che così accetta una proroga al contratto, giusto per prolungare di qualche anno lo stallo politico inaugurato dal governo Monti e con il rischio di riconsegnare mani e piedi il Paese a una destra ignobile e arruffona. In Parlamento inizia la grande glaciazione. Se un’altra sinistra è possibile, non resta che mettersi all’opera.