Conclusioni di Nichi Vendola
Presidenza di Sinistra Ecologia Libertà, lunedì 11 marzo 2013
Il rischio di una drammatica deriva del nostro Paese.
Non credo che potremo trovare un sentiero utile alla nostra ricerca guardandoci l’ombelico, come una parte grande di questa discussione ha fatto. Credo che tra le cose buone della cultura politica della sinistra che ci dovremo portare anche nel futuro, c’è la critica ai limiti del soggettivismo, l’incapacità di connettere le vicende di un soggetto di dimensioni assai modeste, di connettere le sue propensioni, le sue scelte, i suoi successi o insuccessi ad un contesto più generale. E non credo che faremo bene se isolassimo la nostra discussione da quello che ora dopo ora sta accadendo in Italia. E’ drammatica la deriva del nostro paese, è drammatica oggi in questo momento più di ieri, a quest’ora più di stamattina. A quest’ora perché le dichiarazioni dell’onorevole Alfano sulla volontà di valutare un eventuale Aventino come risposta alle iniziative dei magistrati nei confronti dell’onorevole Berlusconi – dichiarazioni che si aggiungono a quelle dell’onorevole Gelmini che dice “per la prima volta praticheremo la disubbidienza al leader e andremo a manifestare davanti ai palazzi di giustizia”, – questo elemento di acutizzazione dello scontro tra politica e giustizia è un aggravamento serio di una condizione melmosa che segna il contesto democratico della nostra crisi. E mentre noi parliamo il governo in carica non smette di esercitare le proprie funzioni. Per esempio di congelare ulteriormente fino al 2014 i salari del pubblico impiego, con un intervento che continua ad essere depressivo dell’economia, un ulteriore contributo alla recessione. Monti non ha soltanto fatto male nell’anno in cui ha governato fino alle elezioni: continua a fare male. E questo dibattito, ma complessivamente il dibattito che si svolge nella politica italiana, ha rimosso quasi completamente uno degli ingredienti strutturali della nostra crisi, cioè la vittoria della Lega Nord nella regione Lombardia in una prospettiva qual’ è quella della macroregione settentrionale, un’idea che contiene dentro di sé, in qualche maniera concentrati, tutti gli elementi rischiosamente secessionisti che hanno costituito una parte rilevante dell’immaginario e della comunicazione della Lega negli ultimi trent’anni. Non so se è chiaro: noi siamo collocati in questo punto della crisi e la nostra crisi è la crisi dell’Europa. Il grillismo è una delle varianti del potenziale sfaldamento dell’assetto democratico europeo, conseguenza di medio periodo della fine del compromesso tra capitale e lavoro così come si era realizzato alla fine della guerra. Noi siamo qua dentro. Dobbiamo ragionare partendo da questo punto di analisi e non adoperando il “senno di poi”. Il “senno di poi” è una scienza esatta, perché è una delle poche scienze assolute che esistano, dato che è facilissimo “poi” riconnettere le scelte in chiave di errore, insufficienza, debolezza.
La sconfitta della sinistra in Europa.
Ma attenzione: credo che faremmo un cattivo servizio alla verità se non andassimo a fondo nell’analisi della situazione in cui ci troviamo e se, a dimostrazione del fatto che noi siamo una parte del problema e non la soluzione del problema, usassimo occasioni come queste per atteggiamenti di critica e di autocritica che, decriptati, sono soltanto resa dei conti interna a un gruppo dirigente. Io vi invidio molto perché, avendo una responsabilità in più rispetto a voi, non posso partecipare al rito dei “sassolini nella scarpa” e devo invece invitarvi a non farlo, e a ragionare di politica. E a ragionare di politica per il dovere che noi abbiamo nei confronti del paese, perché penso di poter dire che non avevamo visto male. Non avevamo visto male a Firenze, nell’unico congresso che fin qui abbiamo fatto, un congresso né rituale né celebrativo, ma un congresso in cui abbiamo posto un problema: esattamente la lettura della sconfitta di lungo periodo. Una sconfitta che è tutta interna all’incapacità delle forze della sinistra di tutta Europa di leggere il mutamento di fase, la trasformazione del capitalismo mondiale da capitalismo prevalentemente industriale a capitalismo prevalentemente finanziario, con ciò che comportava anche nei suoi riverberi sui sistemi politici e sulle forme della democrazia.La sinistra europea ha largamente pensato di poter dominare le tendenze liberiste del mercato mondiale e la sinistra radicale ha pensato che il suo compito fosse sostanzialmente quello di denunciare questa svolta a destra delle forze socialdemocratiche. In uno schema che era, congiuntamente, un de profundis per la sinistra del futuro. La sinistra del passato, nel frattempo, poteva acconciarsi a sopravvivere in tanti modi. Noi abbiamo provato a nascere lì dentro, avendo una percezione del fatto che la forma partito fosse consumata, percezione che non aveva nessuno in Italia come l’avevamo noi. Vorrei ricordarvi che avevamo chiesto in prestito ad un protagonista della politica europea come Daniel Cohn-Bendit la sua indicazione sul futuro del partito come “cooperativa sociale”, una traccia interessantissima. La possibilità cioè di reinventare forme di agire collettivo che avessero dentro un elemento etico e comunitario, un elemento solidaristico. Sono molto contento di sentire adesso tanto rimpianto di quelle “Fabbriche di Nichi” che il partito uccise, considerando quell’esperienza nemica del partito, una minaccia per il partito. Bisogna pur ricordare come si sono svolti i fatti, proprio perché quell’esperienza forse conteneva francamente una minaccia all’idea che potesse esser tenuto in vita un partito la cui forma nasce morta e non invece un partito che vive una tensione permanentemente critica sul tema della sua forma.
I nostri risultati, i referendum e le amministrative.
Abbiamo sbagliato in questo? Io penso di no e abbiamo ottenuto dei risultati straordinari. Noi siamo stati un partito di modeste dimensioni elettorali che tuttavia ha segnato la storia politica del paese. Non mettiamoli in fila come se fossero dei salmi da recitare, ma il referendum e le amministrative sono stati il punto più alto dell’esibizione del pericolo che noi rappresentavamo per una serie di poteri reali. Noi. Referendum, che abbiamo correttamente letto come una vittoria del centrosinistra suo malgrado, cioè una vittoria del centrosinistra che non c’è, come domanda di popolo, come domanda di cambiamento. I 27 milioni di voti che mordono la natura del berlusconismo in quanto progetto di privatizzazione onnivora, globale, della realtà. E poi le partite su Milano, su Cagliari, su Genova, su Rieti e sulla Puglia. Che cosa hanno fatto emergere queste partite? Il punto non era quello delle percentuali nostre; certo, avere il 10% è diverso che avere il 3,5%. Ma il punto era quello di una capacità di egemonia sulla scena politica e sul centrosinistra tale per cui la prospettiva di un centrosinistra affrancato dalle ipoteche di subalternità e subordinazione alla cultura liberista era praticabile e apriva più di un varco a una speranza gigantesca. Ma, scusate, contro che cosa si è mosso il mondo se non contro questa idea? Ma pensate che io fossi emotivamente spompato a fare le primarie nel momento in cui sono stato costretto a farle, che il problema fosse un fatto mio psicologico, soggettivo? Non avevamo la percezione di come si fosse determinato un ribaltamento del terreno politico, culturale, simbolico? Le primarie sono state celebrate quando si è caricato su Matteo Renzi il ruolo che ancora un anno prima era prevalentemente sulle spalle della nostra vicenda collettiva. “Cambiamento” sulle nostre spalle aveva immediatamente un richiamo alla questione sociale e alla questione dei diritti civili: un anno dopo “cambiamento” diventata prevalentemente la rottamazione di una classe politica e di una generazione. Ma anche Renzi, subito dopo le primarie, ha fatto il suo tempo, ed è scoccata l’ora di Grillo. Il “cambiamento” come generalizzazione del rancore nei confronti di ciò che viene percepito come privilegio e inerzia a fronte di una povertà dilagante. E quello che è accaduto nell’anno di Monti noi ce l’avevamo chiaro in mente, ancor prima che il governo di Monti cominciasse.
La categoria politica del “centro” e la scomparsa del ceto medio.
E anche qui, vorrei sapere in cosa abbiamo sbagliato. In cosa abbiamo sbagliato nel momento in cui nasceva il governo Monti e il popolo nostro ci diceva: attenzione. C’è stata una grande emozione popolare sulla nascita di quel governo, quell’emozione era dentro i nostri circoli, era dentro la nostra gente. E abbiamo dovuto evitare di disconnetterci sentimentalmente dal popolo nostro, abbiamo avvertito che le politiche di austerità sono l’altra faccia del populismo. L’abbiamo detto subito, con chiarezza, abbiamo soprattutto avvertito che la rimozione del berlusconismo era un fatto clamoroso, e immaginare che fosse una storia finita, quasi si trattasse di un epifenomeno della politica e non di un corposo fenomeno della società, della cultura, del berlusconismo come di una rivoluzione compiuta in Italia. Certo, rivoluzione reazionaria, con i tratti del regresso civile, del regresso culturale, del regresso sociale. Ma come si può immaginare, come noi abbiamo fatto, noi accecati, noi, dico, la sinistra dei facili festeggiamenti, che l’uscita da Palazzo Chigi compisse un ciclo? E non consentisse invece di riprender fiato, di ricalibrare un discorso pubblico in cui era evidente l’interesse a separare la classe dirigente del centrodestra dalla percezione del dolore sociale, in modo tale che si potesse compiere il gioco delle tre carte su chi ha la responsabilità del disastro attuale.
E la politica e il giornalismo, quanto hanno compreso che il dolore di cui si parlava talvolta nelle inchieste televisive non era lo stesso di prima, che non eravamo più al racconto della “società dei due terzi”, dove due terzi seduti sui propri stardard di sicurezza sociale guardano quel terzo escluso il cui smarrimento viene raccontato dalla sociologia del dolore? Un corno, compagni! E’ sempre la “società dei due terzi”, ma due terzi sono quelli esclusi, un terzo è quello incluso. Cioè il dato, vorrei che lo ricordassimo, è che siamo nati ragionando sul fatto che la categoria del centro non aveva a che fare con la realtà italiana perché stava scomparendo il ceto medio. Abbiamo fatto questo discorso: il centro ha un ruolo straordinario anche per la tenuta democratica quando, com’è stato per la vicenda italiana della democrazia cristiana, è il traghettamento della piccola borghesia fascista dentro la democrazia e l’invenzione di corpi intermedi della società che – con l’ideologia del risparmio, la cultura del sacrificio, gli artigiani, i commercianti, la piccola proprietà contadina, i maestri e le maestre e così via – consentono di guardare ai ceti subalterni come a una prospettiva di avanzamento e sono la base sociale di una democrazia. Credo che un regime, un regime di qualsiasi tipo, non si possa reggere senza ceti medi: un regime democratico fa fatica a stare in piedi senza un largo e diffuso ceto medio. La scomparsa del ceto medio è un problema sociale, politico e culturale di dimensioni gigantesche, che fa capire quanto siano ridicole le culture politiche del moderatismo, rispetto al problema di radicale espropriazione di senso sociale e di ruolo di questa parte della società.
Penso che noi abbiamo ragionato di questo, fondamentalmente. Abbiamo provato a lanciare un messaggio nella bottiglia. E’ ovvio che siamo arrivati alle primarie, dico per me, con il dovere di starci. Ma con la consapevolezza piena che stavamo dentro un’altra storia, non so se è chiaro. E che bisognava avere pazienza, che la fragilità, la vulnerabilità del nostro corpo è legata al fatto che siamo contemporaneamente percepiti o come rischiosamente eredi del bertinottismo, e quindi inaffidabili, o pericolosamente complici della subalternità culturale. In questa vicenda è difficile immaginare che ci fosse un modo preventivo di risolvere un problema che aveva a che fare con la lotta politica. Non si poteva sconfiggere Monti preventivamente nel rapporto con il partito democratico. Non so come, cosa bisognasse fare, se non sconfiggerlo come ipotesi di autoprigionia della cultura della sinistra: non un’alleanza ma una resa, abbiamo detto più volte. Ma in questo ha giocato il politicismo non soltanto del partito democratico, cioè di una cultura riformista esausta, bisognosa di rinnovare le fonti, le ispirazioni, il vigore, la natura e il vocabolario. Ma su questo il riformismo del partito democratico e il radicalismo alla nostra sinistra erano miopi nella stessa identica maniera. Tra D’Alema e Ingroia c’è lo stesso torcicollo, la stessa ossessione per Monti. E per noi è stato francamente duro e difficile.
Avessimo fatto un’altra scelta… Ma qual era un’altra scelta a nostra disposizione? Certo, dobbiamo partire dal fatto che la crisi importante del partito democratico coincide con la nostra crisi, cioè la nostra ipotesi è quella di una sinistra di governo capace di partire da qui, dall’Italia, per far massa critica e rimettere insieme un fronte dei progressisti in Europa. Tutta la nostra ipotesi politica è dentro lo schema non del prevalere dell’alleanza ma del prevalere della consapevolezza che si aggrava la crisi sociale del paese, nella pancia dell’Italia non covano fermenti rivoluzionari in senso progressista, ma covano fermenti rivoluzionari in senso reazionario, come sempre accade quando le società si impoveriscono. Si va verso la guerra, si va verso la dittatura, difficile andare verso il sol dell’avvenire, non so se è chiaro. Questa era la necessità nazionale di svolgere un ruolo e di darci una missione in questa partita.
Il Movimento 5 stelle e la nostra battaglia culturale e politica.
Oggi l’analisi che noi dobbiamo fare degli interlocutori, dei problemi, dei soggetti che abbiamo di fronte dev’essere, se posso dirlo, un po’ più smaliziata. Grillo: vi prego di non leggere le cose che diciamo su Grillo come ha fatto Mattia Feltri sulla Stampa in uno dei tanti pezzi intinti di vetriolo che quotidiani come la Stampa e il Corriere ci dedicano con ritmo incalzante. Mica si tratta di vedere ciò che è buono e ciò che è cattivo in Grillo. Il voto al Movimento 5 Stelle, poi la rappresentanza delle 5 Stelle, poi Grillo e Casaleggio, sono tre questioni tra loro distinte. Il movimento 5 Stelle prende un consenso straordinario che rappresenta un terreno molteplice, plurale e ambiguo di domanda di cambiamento. Io non propongo di selezionare gli elementi che hanno un qualche grado di consanguineità con i nostri elementi e di provare a governare. Io dico che dobbiamo veramente sconvolgere le nostre categorie con cui analizziamo un fenomeno come quello e semplicemente provare ad andare incontro a quel cambiamento con una battaglia culturale, con una battaglia politica. L’idea di avere come obiettivo il cento per cento del consenso è un’idea da brivido, come tutti voi potete immaginare. Dobbiamo ricordarci che la democrazia vive non soltanto della forza e dell’espressione orizzontale dei desideri delle persone,della loro soggettività: vive anche del culto assoluto dei diritti delle minoranze e su questo è inutile dire null’altro che non abbia già scritto Zagrebelsky nel suo saggio sul “Crucifige”, cioè su una democrazia plebiscitaria che mette in croce Cristo. Attenzione. Io penso che nessuno di noi abbia reticenza a questo livello della battaglia culturale.
Ne dico un altro di elemento. Si può avere la distanza più lontana dai propri avversari, considerarli veramente gli avversari della vita, combatterli con durezza. Ma l’elemento della denigrazione morale dell’avversario è però dentro di sé, in nuce, qualcosa di inaccettabile. Ognuno di noi, quando si legge nelle cose dei grillini, è colto da un elemento di ansia e di smarrimento. Io ho più di quarant’anni di vita politica, quarant’anni di vita politica inghiottiti dentro un insulto. Forse anche per il fatto che sono tanti quarant’anni di vita politica e chissà perché, avere passione civile e passione politica a quattordici anni è considerato segno di vitalità; averlo avuto a quattordici anni quando ne hai cinquantaquattro è segno di degrado morale, non lo so perché. Ma attenzione, anche questo è un elemento che culturalmente noi dovremmo apprezzare un po’ di più. La denigrazione organizzata: ogni volta che io scrivo qualcosa nella rete, so che ci sono almeno quaranta grillini che hanno proprio come loro missione il marcamento a uomo. Qualunque cosa io dico, qualunque cosa io propongo, hanno il compito dell’infamare, del macchiare. Anche questa è una modalità di sporcare una passione genuina. Perché io immagino che ciascuna di quelle persone che hanno come compito (io parlo di me, ho analizzato su di me queste cose) di sporcarmi, siano persone in perfetta buona fede, siano giovani pienissimi di volontà di cambiamento. Ma attenzione, la volontà di cambiamento è anche quella che ti porta a bombardare i Buddha e a pensare che sia salutare devastare i segni della civiltà degli altri. Anche su questo io non penso che dobbiamo fare un passo indietro rispetto alla battaglia culturale di civiltà.
Ma abbiamo sempre questi tre elementi: un voto straripante, che contiene fino in fondo anche il disincanto verso il centro sinistra; una rappresentanza di cui sappiamo molto poco (avremo modo di audire voci, pensieri e parole, ma ho l’impressione che nelle questioni di fondo, dal lavoro, alla giustizia, alla scuola, alle banche, ci possiamo trovare di fronte a un repertorio larghissimo di differenze interne a quell’area, e forse è anche questo un motivo per cui finora è stata un’area silenziata, perlomeno rispetto a quello che riusciamo a percepire); un capo, o forse due in Grillo e Casaleggio. Non si tratta però adesso di essere fiacchi con Grillo, si tratta di sapere che lì dentro ci sono anche degli elementi che appartengono fortemente ai doveri di una sinistra riformatrice in questo tempo di crisi. La riforma della politica: e qui, vi prego, non fate l’autocritica degli altri ( ricordo un simpaticissimo Giorgio Amendola quando diceva “i compagni sono bravissimi a farsi l’autocritica degli altri”), perché qui credo c’è un problema per tutti noi. Se ripercorressimo le vicende della formazione delle liste potremmo avere materiale su cui riflettere: qual è stato il riverbero dei territori su tutti i punti di crisi e di lacerazione e quali sono le tendenze non solo all’autoconservazione dall’alto ma anche a uno sfrenato elettoralismo dal basso. Noi siamo globalmente lo specchio di una crisi: quello che ci differenzia dagli altri è che lo diciamo, che proviamo ad analizzarla questa crisi e che in una qualche maniera proviamo anche a reagire, naturalmente con tutte le insufficienze di un’organizzazione come la nostra che nasce con una natura pattizia e che fa fatica a sciogliersi in una forma comunitaria in cui la solidarietà sia quella dei membri della nuova comunità e non quella degli antichi sodalizi.
Il PD, noi, la sinistra in Italia: si è esaurita una storia.
Poi c’è il partito democratico. Anche qui, compagni: scioglierci nel partito democratico! E’ proprio un modo di discutere fuori del contesto. Ad un certo punto ci si ferma e in astratto ci chiediamo: esistiamo? Ci sciogliamo? In questo momento il processo politico è ricco, articolato, vorticoso; vedremo che succederà con l’incarico a Pierluigi Bersani. Abbiamo apprezzato lo sforzo di stare in sintonia con noi di Bersani. Certo, non abbiamo una grandissima audience, però abbiamo svolto un ruolo. Nel momento del panico, quando il partito democratico diceva “elezioni anticipate” mentre ancora si stava scrutinando, o diceva “governissimo”, noi abbiam detto “no”. Abbiamo rotto il tabù e abbiamo detto di andare a vedere le carte di Grillo. Abbiamo provato a impostare differentemente la questione, anche per una previsione, che è quella che se si dovesse tornare alle elezioni anticipate dovrebbe essere chiaro a tutti che si tratta di una scelta frutto del politicismo di Grillo, cioè della prevalenza del calcolo elettorale rispetto agli interessi del paese. Questo è quello che abbiam detto.
E’ finita la serie delle varianti? No, non è finita. Perché ovviamente ci sono altre varianti più consone alla cultura politica delle nostre classi dirigenti ed è probabile che se fallisce Bersani noi ci possiamo trovare di fronte a uno schema rovesciato, che è quello che pone, a fronte di un nuovo governo tecnico, il partito democratico dinanzi alla responsabilità di portare eventualmente il paese alla crisi. Salvare il senso di responsabilità e suicidarsi contemporaneamente, perché qualunque abbraccio con la pdl porta a un principio di deflagrazione. Questo è lo scenario. Quando io dico si è esaurita una storia, sia la nostra sia quella del partito democratico, sto dicendo che si è esaurito un ciclo, si è esaurita una fase. Sto dicendo che dobbiam fare politica, che dobbiam vivere, che dobbiamo essere capaci di fare qualcosa. Non dico raccogliere le firme per il reddito minimo garantito che forse è eccessivo come fatica fisica. Ma per lo meno essere attori nella società, capendo che il tema è posto, il suo svolgimento è davanti a noi. I partiti non nascono in laboratorio, non sono delle creature che nascono in provetta: si fanno nella società, nel vivo della contesa, nell’organizzazione degli interessi, delle culture.
Il tema è il vuoto della sinistra che c’è in Italia. Noi siamo stati una allusione, talvolta un’illusione. Oggi siamo un frammento di un discorso tutto da costruire, il partito del progresso del futuro. “Benvenuta sinistra” era lo slogan giusto, a una condizione: che si potesse spiegare che il deficit di sinistra aveva accompagnato lo smarrimento dei diritti delle persone. Quanto meno sinistra c’è stata nei luoghi istituzionali tanto peggio è stata la vita reale delle persone. La sconfitta politica della sinistra ha accompagnato simmetricamente il regresso sociale di una parte larga dell’Italia, questo è stato. Dunque, “benvenuta sinistra” doveva significare “benvenuta giustizia sociale”, “benvenuta la laicità”, “benvenuti i diritti di libertà”, “benvenuto un paese ambientalista”, “benvenuto un paese che fa una battaglia esplicita contro l’illegalismo di massa”. Ecco, riflettiamo anche sui tre ingredienti che hanno agganciato di nuovo la pancia larga del sud: condono tombale, condono edilizio e Imu. Veramente noi siamo diventati grillini al punto tale da pensare che tra politica e società c’è uno iato e che la politica fa schifo mentre la società è un’entità virginale? Veramente pensiamo che non c’è una relazione tra società e politica? Io ho provato a dirlo così in campagna elettorale: Berlusconi fa appello all’illegalismo di massa, cioè fa appello ad un terreno sul quale noi non possiamo agire moralisticamente. Si tratta davvero di capire qual è invece il modello di sviluppo che metti in campo, come cambia il tuo vocabolario. L’ambientalismo del centrosinistra è domenicale, mentre la sua propensione cementificatrice è feriale.
In questo momento mi pare molto saggia la scelta della CGIL di dire “facciamo un governo per il lavoro”. Noi di qua dobbiam partire. Il 65% degli italiani stanno male, ci dicono i dati. Cresce la povertà continuamente, ci sono urgenze di ore, di ore. Noi non possiamo tenere fermo il paese non dico per sei mesi, non possiamo tenere fermo il paese per tre mesi. E la ragione per cui andava fatto l’azzardo dell’alleanza con il partito democratico, è perchè sta crescendo ovunque in Europa la consapevolezza materiale della sostenibilità delle politiche di austerità. Questa è stato il terreno. Credo che se potessero tornare indietro, sapendo quello fanno non solo dal punto di vista elettorale, anche dal punto di vista dei dati più recenti che hanno fornito Banca d’Italia e altri su quella che è la condizione sociale reale del paese, penso che il partito democratico farebbe un’altra campagna elettorale. Allora, noi abbiamo urgenza di provare a dare delle risposte non moralistiche.
Sulla corruzione, c’è l’urgenza di dare una risposta a un fenomeno che è di devastazione dell’economia, della ricchezza del paese. Vorrei dire che c’è un silenzio sul processo di riorganizzazione capillare delle mafie in tutta Italia che fa paura. Quello che io osservo in Puglia, dopo anni e anni di marginalizzazione dei clan, è che negli ultimi tre mesi c’è stato un salto incredibile. Ne parlo dicendo a tutti noi che l’educazione alla legalità e il galateo antimafia oggi sono veramente un orpello retorico a fronte della necessità di parlare di corruzione e di criminalità organizzata come di architravi dell’idea di uno sviluppo e della crescita di un modello sociale. Una cosa concreta, visto fra poco parleranno i parlamentari del partito democratico: che altro bisogna aspettare, dopo quello che ha scritto ieri il New York Times, per dire non “diminuiamo” ma “cancelliamo” il programma di acquisto degli F35, che altro dobbiamo aspettare? Dice il New York Times di ieri: fonti del Pentagono asseriscono l’assoluta inutilità anche come strumenti di combattimento di questi velivoli. E’ una cosa, una, e su quella vorrei convocare una manifestazione di massa per dire, immediatamente, quelle risorse sono cifre che possono alimentare il fondo per la non autosufficienza, avviare un piano di rimessa in sicurezza delle scuole e così via. Allora, attenzione. Anche la maniera di discutere del partito democratico ha a che fare con soggetti esterni al partito democratico, basti citare la CGIL.
La casa dei progressisti e la nostra adesione al PSE.
Per noi c’è uno spazio politico reale, non per la nostra sopravvivenza, ma spero per la nostra dissoluzione in un soggetto che sia la casa dei progressisti del futuro e dobbiamo vivere questo spazio come un fatto costruttivo. Lo dico in forma provocatoria: dobbiamo essere capaci di parlare al paese e di parlare al partito democratico parlando al paese, Dobbiamo fare una riflessione sul nord molto seria, perché non sappiamo ancora come sarà la ripartenza della macroregione del nord. Voglio dire due ultime cose. Siccome la partita, come si è visto, è tutta sul destino dell’Europa, io francamente penso che noi non possiamo ulteriormente indugiare nel fare una scelta, nell’individuare qual è il luogo in Europa in cui si può determinare l’accumulo delle forze, delle energie necessarie, in questo momento particolarmente inquietante di crisi. Grillo è un fantasma che si aggira per tutta l’Europa e noi dobbiamo sapere qual è il luogo in cui si può ricostruire il fronte del progresso della sinistra in Europa.
Io penso, lo dico, non tutti siamo d’accordo: questa volta dobbiamo giungere a sciogliere il nodo. Penso che questo è il tempo in cui dobbiamo entrare come componente caratterizzata da una forte propensione ecologista e libertaria, dentro il Partito del Socialismo Europeo. Penso che sia il modo non soltanto di segnalare che la nostra vicenda non è una vicenda di bassa cucina, ma è una vicenda della politica europea, un modo di stare dentro, anche nei confronti del centrosinistra e del partito democratico, la costruzione di una nuova Europa e il modo più spiazzante, più intelligente di tornare a porre l’agenda vera delle cose da fare.
Essere il lievito del cambiamento.
Vorrei ringraziare le amiche e gli amici,le compagne e i compagni che si sono candidati con noi e che hanno partecipato a questa discussione. Noi come partito, io come persona, mi sento in debito nei loro confronti. A molti di loro abbiamo chiesto qualcosa che è normale chiedere a noi stessi. Noi viviamo pericolosamente da tanti anni, viviamo con le nostre forze, i nostri sacrifici, facendo davvero degli sforzi talvolta sovrumani. Volevo dire alle compagne che il lavoro di cura va fatto in un contesto di reciprocità e siccome il leaderismo è una malattia e va combattuta costruendo comunità, penso che in una comunità il lavoro di cura sia un atteggiamento, uno stile operativo, culturale e umano che deve contraddistinguere tutti nei confronti di tutti, anche nei confronti di chi è momentaneamente il leader di questo partito. Penso che sia doveroso da parte mia dirlo, perché da alcuni anni, e ora in maniera particolarmente aspra, siamo dentro una vicenda nella quale capita a ciascuno di noi di discutere di una scelta che ha segnato la nostra vita. Chi ha fatto la politica come l’abbiam fatta noi, chi ad un certo punto ha deciso di non intraprendere la carriera universitaria o la carriera giornalistica e ha deciso un’altra cosa e l’ha decisa non come una carriera ma come una scelta di vita, si trova a fare delle considerazioni che riguardano persino la propria esistenza. Non parlo di me, parlo di ognuno di noi. E quindi bisogna avere delicatezza e rispetto nei confronti di tutti e di tutte. I compagni e gli amici che senza una tessera di partito hanno accettato di condividere con noi quest’esperienza hanno dato anche una prova straordinaria di maturità partecipando a questo dibattito e facendolo senza nessun tipo di recriminazione individuale. Ho trovato alcuni interventi di altissima levatura politica e penso che noi siamo in una situazione complicata e tuttavia credo che dobbiamo riflettere su quello che noi siamo sapendo che io non potrei mai più immaginare Sinistra Ecologia Libertà orfana del contributo di questi uomini e di queste donne. Alcuni di loro sono nella mia testa più vicini a Sel di quanto non lo sia io: mi convincono loro, con le loro parole, con la loro testimonianza, a credere ancora in questo progetto, Non un progetto di autosufficienza, ce lo siamo detti ma forse non ne eravamo convinti e forse questo è stato consentito al leader di dirlo come se fosse una sua civetteria. La nostra autosufficienza è la nostra morte. O noi siamo lievito per far crescere una prospettiva di cambiamento che sia di sinistra oppure noi non abbiamo alcun senso. Su questo ho costruito il percorso che ho condiviso con tutti voi e in un momento di difficoltà come questo non posso che dirvi: o ripartiamo da qua oppure non c’è speranza per il nostro futuro.