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Il “non-detto” della riforma del lavoro.

da italia2013.org

La flessibilità del lavoro in alcuni paesi del mondo. L’Italia è già ora più flessibile di Francia, Germania e altri paesi europei. Grafico tratto da www.gustavopiga.it
Ieri sera il governo ha concluso la trattativa sulla riforma del lavoro e, dopo altre riunioni “tecniche”, sottoporrà la sua proposta al parlamento. Analizzeremo con più calma queste proposte nei prossimi giorni, vale la pena però ora considerare alcuni elementi che ci aiutano a capire quale può essere l’obiettivo non dichiarato della riforma e quali le sue conseguenze.

1. La prima lettura è questo articolo di Carlo Clericetti su Repubblica che sostiene che l’obiettivo non dichiarato della riforma del lavoro italiana è quello della riduzione drastica dei salari: è il rischio insito nella combinazione tra libertà di licenziamento per motivi economici e la possibilità di derogare ai contratti nazionali già prevista dall’”articolo 8? approvato a suo tempo da Berlusconi. Concretamente, un’impresa potrebbe usare la crisi attuale per intavolare una trattativa in cui, se i sindacati accettano, si derogherà dai minimi contrattuali previsti dai contratti nazionali, altrimenti ci saranno licenziamenti di massa previo pagamento di una indennità. Ovviamente, tutto ciò sarebbe autorizzato non per cattiveria ma in ossequio ad una teoria economica che postula l’abbassamento dei salari come unica via per recuperare competitività per un paese che non ha il controllo sulla propria moneta. Una volta, per far costare meno i prodotti italiani e venderne di più si svalutava la lira, ora si deve svalutare il salario. Una teoria già applicata in Grecia dove si è richiesto l’abbassamento dei salari del 30% ma anche in Spagna: come ha spiegato qui Jacopo Rosatelli, la “reforma laboral” di Rajoy lascia libere le imprese di licenziare pagando bassissime indennità anche nel caso di un breve periodo di crisi economica. Figuriamoci ora che il periodo è lungo.

2. La teoria su cui si basano queste riforme, però, ha poca attinenza con la realtà. Quello che succede con la diminuzione dei salari (e dei posti di lavoro) è che diminuisce fortemente la domanda di beni e quindi l’economia si ferma. In più, calano anche le entrate fiscali e quindi il Paese in questione non riesce a raggiungere gli obiettivi di bilancio stabiliti con l’UE. Questo provoca un nuovo “piano di aggiustamento” e l’imposizione di nuovi sacrifici che perpetuano questo circolo vizioso, depauperando sempre di più il Paese delle proprie risorse umane, industriali e naturali. Sì, perché spesso la teoria ha anche un lato molto pratico: il Paese in cui viene praticata è costretto a vendere i suoi beni pubblici: dall’acqua alle coste.

3. C’è un’altra perdita, che citammo a proposito della Grecia. E’ la perdita di vite umane che aumenta con l’aumentare della disoccupazione e della crisi. Ne tratta questo bel post di Gustavo Piga che spiega anche grazie al grafico qui accanto come ci sia una relazione tra suicidi e crisi economiche. Un dato che bisognerebbe tenere a mente quando si parla, eufemisticamente, di “flessibilità in uscita”. Alla fine, a forza di essere flessibile, la vita di una persona si spezza e con lui (o lei) il tessuto sociale di cui fa parte.

4. Che fare allora? Ci sono molte alternative a questo tipo di riforme del lavoro, su questo blog ne abbiamo fatte alcune di cui una sintesi si può trovare al settimo punto di questo post. Il nodo è quello di produrre nuovi beni e nuovi servizi, di lottare contro le disuguaglianze per creare nuova domanda, di rendere il Paese più pulito e più giusto come premessa per uscire dalla crisi. Ci sono poi le proposte che hanno fatto i socialisti ed i democratici europei la scorsa settimana a Parigi, approvando il documento “Rinascimento per l’Europa” e di cui Clericetti ci offre una sintesi: “non puntare tutto e subito sul risanamento dei bilanci pubblici, che va fatto, ma in modo più graduale e non in una fase di recessione. Utilizzare strumenti che permettano di stimolare la crescita, come i “project bond” europei, con cui realizzare opere infrastrutturali e investire sull’energia rinnovabile. Premere a livello di G20 per realizzare una riforma della finanza per cui finora poco o nulla è stato fatto. Insomma, dosare i tempi dell’aggiustamento e soprattutto di accompagnarlo con misure che favoriscano la ripresa dell’economia”.

Non sappiamo ancora cosa voterà il PD sulla riforma Monti-Fornero del mercato del lavoro, ma sappiamo che in Europa ha già firmato un documento che propone una ricetta alternativa. Chissà che non ci si renda conto troppo tardi da che parte stanno, in Europa, le politiche economiche del governo Monti.

(Mattia Toaldo)

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